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Aurora magazine

Un esame del sangue per predire l'aggressività del tumore alla prostata

Una ricerca del San Raffaele di Milano rivela che il tumore alla prostata tende ad essere più violento in chi ha livelli di testosterone bassi. Lo studio potrebbe aiutare a distinguere i casi più aggressivi dalle forme indolenti, quelle che in certi casi non necessitano neanche di cure.

Il tumore alla prostata è uno dei più frequenti tra i pazienti di sesso maschile. Negli ultimi anni, però, c'è stata una crescita costante del livello di sopravvivenza, con il 90% dei malati ancora vivo a cinque anni dalla diagnosi. Questo anche grazie alla diagnosi precoce, che permette di individuare il tumore quando è ancora curabile.

La ricerca mette a disposizione di pazienti e medici un gran numero di possibili trattamenti, che vanno dalla chirurgia alla radioterapia, fino all'ormonoterapia. In base al tipo di tumore e al suo stadio, medico e paziente decidono qual è la strada migliore da prendere, valutando i pro e i possibili effetti collaterali.

L'ostacolo maggiore è l'individuazione in tempi brevi del grado di aggressività del tumore della velocità con cui potrebbe metastatizzare. Infatti al momento manca un metodo efficacie per farlo bene e in tempi brevi. Ci sono diversi test che servono a valutare lo stadio di un carcinoma prostatico, a partire dall'esame rettale, fino alla biopsia. In base al tessuto estratto si dà un grado di Gleason, che è il punteggio che misura il grado di aggressività del tumore.

Lo studio presentato dal team di Milano si basa su una teoria già in circolo negli ambienti scientifici, ovvero quella di una connessione tra il livello di testosterone e l'insorgenza del tumore. Sembrerebbe infatti che le cellule del cancro prostatico siano, almeno inizialmente, sensibili agli ormoni.

Dalla ricerca è emerso che per i pazienti con meno testosterone nel sangue è più probabile avere un punteggio di Gleason alto. Ne consegue che analizzando il sangue del paziente malato e il livello di testosterone nel sangue, dovrebbe essere più facile predire il grado di violenza del tumore.

L'approccio, se confermato, potrebbe aiutare a individuare fin da subito i casi di tumore più aggressivi, così da agire subito nella maniera più efficace.

Fonte: corriere.it

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Un farmaco orfano contro la cardiopatia pediatrica

Un team della Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia ha provato la mexiletina su 34 bambini cardiopatici, con ottimi risultati. L'ostacolo principale è che la mexiletina è un farmaco orfano, quindi non più in produzione.

La mexiletina è una molecola che è stata usata per anni nel trattamento di anomalie cardiache in pazienti adulti. Una decina di anni fa il brevetto commerciale è scaduto, ma nessuna casa farmaceutica ne ha portato avanti la produzione. I medici hanno protestato per la cosa, ma le spese di produzione e di distribuzione sono considerate troppo alte in rapporto al possibile guadagno. Per questo motivo nessuna casa farmaceutica vuole prendere in carico il farmaco, che è rimasto "orfano".

I ricercatori della Maugeri hanno condotto uno studio sugli effetti di questo farmaco orfano sui pazienti con la sindrome del QT lungo. La ricerca è andata avanti per tre anni e ha svelato il possibile ruolo della mexiletina nel trattamento della sindrome.

La sindrome del QT lungo di tipo 3 è una malattia genetica rara che si manifesta spesso nei primi anni di vita. Provoca alterazioni del battito cardiaco, causate da un eccesso di sali minerali nel cuore. Gli alti livelli di sodio e potassio determinano un ritmo cardiaco irregolare e svenimenti. In alcuni casi il cuore si ferma e non è più in grado di riprendere il battito, provocando la morte del paziente nel sonno. È difficile da diagnosticare e colpisce in media una persona su diecimila.

Secondo lo studio, la mexiletina agisce sulla quantità di sali minerali in entrata nel cuore. In questo modo il battito si normalizza e si riduce drasticamente il rischio di morte improvvisa. Nei 34 pazienti che hanno partecipato alla sperimentazione, i ricercatori hanno rilevato una normalizzazione del battito e una netta diminuzione degli svenimenti.

In Italia la mexiletina è prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. L'istituto è subentrato nella produzione al posto delle grandi case farmaceutiche, rispondendo all'appello di medici e pazienti. Ogni volta che una farmacia o un ospedale ne fa richiesta per un paziente, l'istituto provvede all'invio del farmaco. In questo modo si prende in carico un compito economicamente svantaggioso, ma inestimabile per garantire la salute di molte persone.

Fonte: repubblica.it

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Rete USA-Italia per la lotta alle malattie rare

Il Centro Nazionale Malattie Rare dell'Istituto Superiore di Sanità e il National Institutes of Health degli Stati Uniti hanno annunciato il nuovo network internazionale Undiagnosed Diseases Network International.

La rete include, oltre che Italia e Stati Uniti, anche Canada, Giappone e Australia. Accanto alla nuova rete internazionale, viene avviato anche un progetto pilota bilaterale Italia-USA, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione. Vi partecipano cinque centri clinici e di ricerca italiani, con lo scopo di raccogliere dati da pazienti senza diagnosi. I dati verranno in seguito analizzati attraverso la Rete Nazionale Malattie Rare. 

Il progetto vuole sviluppare un database nazionale contenente dati relativi a genotipi e fenotipi, il tutto seguendo standard internazionali condivisi. Il database sarà disponibile per la comunità scientifica internazionale, per incentivare lo scambio di informazioni e dati a proposito delle malattie rare. Un modo per unire gli sforzi della ricerca di tutto il mondo e i pochi dati che si hanno su queste patologie.

Al momento lo strumento nazionale per il monitoraggio delle malattie rare è il Registro Nazionale Malattie Rare. Questo riporta che nel 2015 ci sono stati 195.492 casi di persone colpite da malattia rara in Italia. Il 15% delle segnalazioni è costituito da patologie ematologiche; seguono anomalie nello sviluppo che portano a disabilità intellettuale e patologie dell’occhio.

Da quest’anno il Registro sarà uno strumento utile non solo per monitorare la situazione, ma anche per individuare i centri di eccellenza per ciascuna malattia. Questi verranno inseriti all’interno degli European Reference Networks, una rete di punti di riferimento per la diagnosi e il trattamento delle malattie rare.

Il nuovo network internazionale è un grande passo in avanti, benché gli anni tra il 2012 e il 2015 siano stati comunque molto importanti per la ricerca sulle malattie rare: l’Agenzia Europea dei Medicinali (Ema) ha approvato 57 nuovi farmaci finalizzati al loro trattamento. Nel mentre in Italia è raddoppiata la spesa per i farmaci orfani, ovvero quelli finalizzati a malattie troppo rare essere un investimento utile per le aziende farmaceutiche. Tutto ciò indica una presa di coscienza sempre maggiore verso queste patologie.

Nel progetto Italia-USA saranno coinvolti l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, insieme al Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare "Aldo e Cele Daccò" di Bergamo; Centro Multidisciplinare di Ricerche di Immunopatologia e Documentazione su Malattie Rare di Torino; il Lab Mr del Centro di Coordinamento Regionale Malattie Rare dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria "Santa Maria della Misericordia" di Udine; l’Unità Operativa di Genetica Medica del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Ferrara; l’Unità Operativa Complessa di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma.

Fonte: osservatoriomalattierare.it

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Un farmaco contro l'emofilia da prendere due volte a settimana

Sarebbe stato trovato un farmaco contro l'emofilia da prendere solo due volte a settimana. L'annuncio è stato all'EAHAD, il convegno dedicato all'emofilia che si tiene ogni anno in Svezia.

L'emofilia è una malattia genetica rara. Chi ne è affetto ha un livello di fattore VIII della coagulazione estremamente ridotto, che lo rende vulnerabile ad eventi emorragici sia esterni sia interni. Ciò costringe chi ne è affetto a iniettarsi endovena il fattore per la coagulazione. In questo modo si mantiene costante il livello della molecola e si prevengono i sanguinamenti.

Il trattamento si è diffuso in Italia solo a partire dagli anni '80 e, pur essendo stato un enorme passo in avanti rispetto alle trasfusioni di sangue cui i malati erano costretti, è comunque un forte limite. A seconda della gravità della patologia, infatti, i malati possono doversi iniettare il fattore anche tutti i giorni per tutta la vita. Le aziende farmaceutiche stanno da tempo cercando un modo per allungare la durata dei farmaci, ma i risultati erano stati fino ad oggi scarsi.

Nel corso del convegno sono stati presentati i dati di una molecola sviluppata dalla Bayer, la  BAY 81-8973. La molecola modificherebbe la struttura del farmaco oggi in commercio, prolungandone gli effetti e prevenendo i sanguinamenti spontanei nei malati. Grazie alla BAY 81-8973 si sarebbero ridotte le iniezioni settimanali a due, con un impatto molto più lieve sulla vita del malato.

Pur essendo un grosso passo avanti, il farmaco non emanciperebbe i malati da molti degli obblighi attuali. È infatti fondamentale che il malato impari a controllare la malattia fin da piccolo, seguendo dei training nei centri specializzati. Solo così chi è malato può condurre una vita il più possibile normale e paragonabile a quella di una persona sana.

Fonte: lastampa.it

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