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Aurora magazine

Il microbiota intestinale materno influenza il metabolismo fetale

Gli acidi grassi a catena corta provenienti dal microbiota sopprimono i segnali dell’insulina, riducendo i depositi di grasso. Secondo uno studio pubblicato su Science, il fenomeno potrebbe influenzare anche lo sviluppo fetale. Alcuni esperimenti mostrano infatti che gli acidi possono attraversare la placenta, passando dal microbiota materno all’ambiente fetale. Potrebbero quindi regolare i livelli di insulina e influire anche sullo sviluppo del metabolismo del piccolo.

Negli ultimi anni, il microbiota intestinale sta subendo attacchi sia dall’uso massiccio di antibiotici sia dall’alimentazione povera di fibre. La mancanza di un microbiota sano e funzionale espone a diverse malattie, gran parte delle quali metaboliche. Gli autori dello studio hanno quindi analizzato gli effetti in gravidanza, onde verificare se coinvolgessero solo la madre o anche il feto.

I ricercatori hanno diviso le cavie gravide in due gruppi: metà hanno passato la gestazione in un ambiente privo di un patogeno specifico, metà in un ambiente privo di germi. I piccoli del secondo gruppo sono risultati molto più inclini a sviluppare problemi metabolici. In un secondo momento, hanno ripetuto l’esperimento; questa volta, le cavie del secondo gruppo hanno mangiato poche fibre durante tutta la gestazione. Di nuovo, i piccoli hanno manifestato lo stesso problema.

Secondo i ricercatori, gli acidi grassi a catena corta del microbiota intestinale passano dalla madre al feto. Quando il microbiota è carente, l’embrione riceve meno acidi grassi. Il deficit intacca lo sviluppo del sistema metabolico del piccolo, rendendolo quindi più vulnerabile a futuri problemi di obesità.

Fonte: sciencemag.org

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Trovato nuovo modello per la adrenoleucodistrofia legata all’X

Un team della IDIBELL Neurometabolic Diseases ha individuato un nuovo modello per la adrenoleucodistrofia legata all’X, detta anche X-ALD. I modelli in questione sono i Caenorhabditis elegans o C. elegans, dei vermi lunghi circa 1 millimetro con un organismo molto semplice. Ciò faciliterà lo studio della malattia, per la quale non esistono trattamenti al momento.

La X-ALD è una malattia genetica rara che colpisce il sistema nervoso. Fino a questo momento, lo studio della malattia è stato complicato: non esistevano modelli efficaci, che consentissero lo studio di possibili target farmacologici. Il lavoro in questione potrebbe cambiare le cose.

I ricercatori ritengono che il C. elegans sia un modello perfetto per la malattia. I vermi in questione possono infatti soffrire di una versione analoga della malattia umana, caratterizzata dal deficit della proteina ALDP. Ciò rende possibile studiare gli effetti di tale deficit in un ambiente controllato e, soprattutto, cercare un modo per contrastarli.

I primi risultati sono incoraggianti: la dottoressa Esther Dalfó riporta le scoperte fatte fino a oggi. I test fatti sui C elegans suggeriscono che le alterazioni neurologiche tipiche della malattia siano causate dalle cellule della glia. Lo stress ossidativo causato dai mitocondri danneggerebbe le cellule in questione, lasciando i tessuti nervosi scoperti. Ciò porterebbe ai danni riscontrati in chi soffre nella malattia. Il prossimo passò sarà comprendere come bloccare il processo.

Ci sono diverse branche della ricerca medica che si avvalgono dei C. elegans. Questi vermi sono piccoli e semplici, pur avendo caratteristiche simili a quelle di animali ben più complesse. Inoltre, il 40% del loro genoma è omologo al nostro.

Fonte: idibell.cat

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A che ora ti svegli? Lo decidono i geni

Per anni ci hanno raccontato la stessa storia: chi si sveglia tardi è un pigrone, non ha abbastanza forza di volontà. La realtà è molto più complessa. Una ricerca condotta dall’Università di San Francisco prova che i geni decidono – almeno in parte – a che ora ci svegliamo. L’abitudine ad alzarsi alle 5 del mattino potrebbe quindi dipendere dal nostro DNA.

Gli autori dello studio hanno analizzato i dati e il DNA di 2.422 volontari. I partecipanti hanno tutti meno di 30 anni e si svegliano abitualmente tra le 3 e le 5 del mattino. Tra i loro parenti, ce n’è almeno uno con abitudini simili. Quest’ultimo particolare conferma l’idea che sia comportamento dettato dai geni, più che dall’abitudine.

Secondo lo studio, l’ora cui ci alziamo dipende in larga parta dal nostro cronotipo di appartenenza. Circa una persona su 300 possiede quello che spinge a svegliarsi molto presto, mentre altri sono portati ad alzarsi più tardi. Ciascun cronotipo è determinato da diverse varianti genetiche, che determinano il rapporto tra sonno e veglia. In alcuni casi, il cronotipo è simile in tutti i membri della famiglia. Molto più spesso, cambia anche all’interno della stessa famiglia.

La scoperta più interessante, però, non riguarda gli orari della nostra sveglia. Le persone geneticamente mattiniere potrebbero essere avvantaggiate, almeno sul piano sociale. Chi si sveglia presto va meglio nello studio, ha più successo sul lavoro ed è più proattivo. Secondo i ricercatori, potrebbe essere merito dell’esposizione precoce alla luce del sole, che stimola il metabolismo e migliora l’umore.

Fonte: d.repubblica.it

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Meno ossigeno in utero, più rischi di ammalarsi di schizofrenia

La carenza prenatale di ossigeno potrebbe favorire la comparsa della schizofrenia. Il deficit è infatti collegato alla preeclampsia, che potrebbe a propria volta colpire gli astrociti. Gli effetti dell’ipossia su queste cellule cerebrali potrebbero favorire la comparsa della malattia. Lo afferma uno studio pubblicato su Scientific Reports, condotto dalla Santa Casa de São Paulo Medical School (FCM-SCSP) in Brasile.

I ricercatori hanno osservato gli effetti dell’ipossia sui mitocondri degli astrociti. Gli astrociti sono infatti le cellule più numerose all’interno del cervello, nonché tra le più importanti. Il loro compito è infatti metabolizzare neurotrasmettitori come il glutammato, un fattore chiave nella schizofrenia. Un loro malfunzionamento potrebbe quindi modificare il modo in cui i neuroni comunicano, portando perfino a danni cerebrali.

L’autore dello studio, il dottore Luiz Felipe Souza e Silva, ha analizzato gli effetti dell’ipossia in cavie affette da ipertensione. I piccoli nati dalle cavie hanno manifestato sintomi simili alla schizofrenia negli esseri umani. Il trattamento con farmaci antipsicotici ha alleviato i sintomi, proprio come negli esseri umani.

Da quanto osservato, le cellule sottoposte all’ipossia hanno livelli di calcio mitocondriale alterati. Ciò ostacola la produzione di energia per gli astrociti, che quindi non sono in grado di combattere lo stress ossidativo. Eppure, alcuni tipi di ipossia non hanno questo effetto, anzi: le cellule producono un numero maggiore di mitocondri, per bilanciare il loro cattivo funzionamento. I ricercatori stanno quindi cercando un modo per innescare questo processo in caso di ipossia, così da ridurre il rischio di conseguenze permanenti.

Fonte: fapesp.br/en

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