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Solo il meglio per la PMA: un algoritmo sceglie gli spermatozoi migliori

Un team di matematici, bioingegneri e informatici dell’Università di Birmingham ha presentato un nuovo progetto per la procreazione medicalmente assistita. Si tratta di un algoritmo che individua gli spermatozoi migliori per fecondare l’ovulo, così da alzare il tasso di successo dei trattamenti contro l’infertilità. Consentirebbe inoltre di evidenziare eventuali problematiche nello sperma, permettendo di affrontarle per tempo.

La tecnica prevede l’utilizzo di tecniche di diagnostica per immagini con liquidi di contrasto. Ciò consente di monitorare gli spermatozoi e i loro movimenti. In un secondo momento, gli scienziati analizzano le immagini raccolte mediante l’algoritmo. In questo modo riescono a identificare gli spermatozoi più vitali, aventi le caratteristiche migliori per fecondare un ovulo. Se si applicasse la tecnica in questione a tutti i casi di procreazione medicalmente assistita, si assisterebbe a una vera e propria rivoluzione nel campo. Si avrebbero infatti trattamenti più mirati, quindi anche più rapidi ed efficienti. La tecnica, però, potrebbe essere utilizzata non solo per affrontare problemi di fertilità già esistenti, ma anche per prevenirne di nuovi.

L’infertilità è un problema molto diffuso. In quasi metà dei casi, la difficoltà di concepire dipende dall’apparato riproduttivo maschile. A volte sarebbero problemi affrontabili con un cambio di stile di vita, ma purtroppo i metodi diagnostici attuali non sono sempre precisi. Questo spinge chi può permetterselo a ricorrere alla fecondazione assistita, chi non può a gettare la spugna. L’algoritmo di Birmingham consente di esaminare lo stato di salute dello sperma e di determinare la percentuale di spermatozoi vitali. Grazie a questi dati, là dove possibile il medico potrebbe indicare quali cambiamenti nello stile di vita andrebbero fatti.

Fonte: news-medical.net

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Le esplosioni di zinco che indicano se l’ovulo è maturo

Per avere una fecondazione artificiale riuscita, bisogna cercare i fuochi d’artificio. Una ricerca della Northwestern Medicine mostra che l’incontro tra ovulo e spermatozoo provoca un’esplosione di zinco. Maggiore è l’esplosione, migliore è la qualità dell’ovulo e maggiori sono le probabilità che si sviluppi in un embrione. La scoperta potrebbe aiutare durante la fecondazione in vitro a scegliere gli ovuli migliori da impiantare.

Gli scienziati hanno attivato gli ovuli iniettando l’enzima dello sperma al loro interno, senza usare spermatozoi veri e propri. Questo ha stimolato lo sviluppo del calcio all’interno dell’ovulo e ha spinto lo zinco fuori. Lo zinco si è legato a piccole molecole che hanno emesso della luce fluorescente, simile a un lampo. Per immortalare il fenomeno, gli scienziati hanno creato una partnership tra biologi e chimici.

Lo zinco è un elemento fondamentale per lo sviluppo embrionale, poiché ne controlla la crescita e l’evolversi in un organismo completo. Verificarne la presenza all’interno dell’ovulo aiuterebbe a scegliere solo gli ovuli più sani, cosa impossibile al momento. Ciò semplificherebbe le diverse fasi di una fecondazione in vitro. Sarebbe infatti possibile evitare l’impianto di embrioni destinati a non attecchire.

Fonte: northwestern.edu

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La procreazione assistita riduce il rischio di difetti congeniti

Uno studio dell’Università di Adelaide suggerisce che la procreazione medicalmente assistita aiuti le donne più adulte a concepire figli più sani. I ricercatori hanno messo a confronto i figli di donne adulte che hanno concepito con la PMA, di donne giovani che hanno concepito con la PMA e di donne adulte che hanno concepito naturalmente. I dati dicono che i bambini nati dal primo gruppo presentano meno difetti congeniti rispetto a quelli degli altri due.

I ricercatori hanno esaminato i dati di 300.000 nascite avvenute tra il 1986 e il 2002 in Sud Africa. Di queste 2.211 sono avvenute mediante fecondazione in vitro, 1.399 con iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo e tutte le altre naturalmente. Senza tenere conto dell’età della madre, il tasso di difetti congeniti è del 7% nel primo gruppo, 10% nel secondo e quasi 6% nel terzo. I dati diventano però realmente rilevanti quando si analizza il legame tra età della madre e rischio di problematiche nel neonato.

Più di una ricerca ha provato la correlazione tra l’età della madre e il rischio di difetti congeniti nel nascituro. Eppure i dati della ricerca dicono che con la fecondazione assistita la correlazione sembrerebbe ridursi. Secondo lo studio, il 6% delle donne fino ai 29 anni che hanno concepito naturalmente hanno dato alla luce bambini con difetti congeniti gravi. Il tasso è dell’8% nelle donne sopra i 40 anni. Con la procreazione assistita, invece, il tasso è del 9% per le donne più giovani e del 4% per quelle più adulte. Ciò significa che la PMA dopo i 40 anni ha portato ad avere bambini più sani.

Il motivo per cui la PMA sarebbe più sicura per le donne dopo i 40 anni è poco chiaro. Potrebbe essere merito dei farmaci usati durante i trattamenti per la fertilità. Questi potrebbero avere infatti effetti diversi in base all’età. Per capire se sia effettivamente così bisognerà però fare ulteriori studi.

L'età e la familiarità con malattie genetiche ed anomalie cromosomiche sono già noti come fattori di rischio. Eventuali anomalie nel feto possono essere rilevate tramite diversi esami di screening prenatale, fra i quali il test del DNA fetale.

Fonte: medicaldaily.com

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Le ovaie possono sviluppare nuovi ovuli: creato un farmaco apposito

La menopausa potrebbe diventare un ostacolo superabile per quante vogliono procreare. Lo studio dell’Università di Edimburgo ha coinvolto un piccolo gruppo di donne sottoposte a chemioterapia, trattamento che spesso intacca le capacità di concepire. I ricercatori hanno sviluppato però un farmaco chemioterapico che non solo preserva, ma aumenta il numero di ovuli.

Lo studio mostra i risultati delle biopsie ovariche di pazienti oncologiche e di donne sane della stessa età. Dal confronto emerge che le donne trattate con ABVD, il nuovo farmaco chemioterapico, hanno addirittura una maggiore densità di ovuli rispetto al gruppo di controllo. La stessa professoressa Telfer, alla guida del piccolo studio, ha affermato che i risultati sono stati inaspettati. L’obiettivo primario era infatti creare un farmaco che non intaccasse le capacità di concepire, al contrario della normale chemioterapia. Invece, le biopsie hanno mostrato che il tessuto ha non solo preservato gli ovuli preesistenti, ma ne ha creati di nuovi. Un risultato che potrebbe rivoluzionare quanto si conosce della fertilità femminile.

Da quanto si sa, le donne hanno un numero fisso di ovuli fin dalla nascita. Una volta finiti, non sono più in grado di concepire. Una caratteristica che pone quindi un limite prefissato alla vita riproduttiva della donna. Con questo farmaco, si apre la prospettiva di una vita fertile più lunga, che vada anche oltre il limite della menopausa. Nonostante l’entusiasmo per la prima scoperta fatta, bisogna però ancora comprendere i meccanismi che stanno dietro a questi risultati. Secondo professori esterni allo studio, potrebbero addirittura esserci spiegazioni diverse dallo sviluppo di nuovi ovuli.

Una spiegazione alternativa è che gli ovuli in più fossero in realtà già lì, benché nascosti. A causa dello stress del trattamento, sarebbero emersi in superficie. Oppure, il farmaco potrebbe aver spaccato in più parti alcuni follicoli degli ovuli. Quindi, nonostante i risultati siano scientificamente rilevanti, bisogna investigare meglio quanto accaduto.

Fonte: theguardian.com

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