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Aurora magazine

Un esame del sangue per diagnosticare nuove malattie

Un team di ricercatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme ha sviluppato un nuovo test diagnostico. Si tratta di un esame del sangue in grado di individuare i biomarcatori legati a diverse patologie. In questo modo permette di valutare l’entità del danno ed elaborare il trattamento migliore per ogni caso.

Il patrimonio genetico di base è sempre lo stesso. Ciononostante, i processi che avvengono nelle cellule dei singoli tessuti possono modificarlo. Il fenomeno si chiama metilazione e determina la specificità dei diversi tessuti. Inoltre, le cellule di un tessuto malato hanno un DNA in parte diverso da quelle di un tessuto sano.

Il test si basa su un principio noto ormai da decenni e usato anche nei test del DNA fetale. Le cellule morte rilasciano frammenti di DNA nel sangue. In teoria, dovrebbe essere possibile ricavare questo DNA da un campione di sangue e determinarne la provenienza grazie al pattern di metilazione. In pratica, isolare e decriptare questi frammenti cellulari richiede tecnologie e conoscenze avanzate.

I ricercatori israeliani hanno messo a punto una tecnica per isolare i frammenti di DNA presenti nel sangue. Esaminando questi frammenti, sono stati in grado di determinare le condizioni di salute di pazienti affetti da varie patologie. Ad esempio, hanno elaborato un modo per diagnosticare in modo più preciso il diabete mellito. Infatti, il sangue di chi ne soffre è più ricco di frammenti di cellule del pancreas rispetto alla media.

Il test dei frammenti di DNA potrebbe essere decisivo per la diagnosi precoce di tumori e patologie degenerativa. Individuando un numero eccessivo di cellule di un certo tipo, i medici sarebbero in grado di diagnosticare la malattia prima della comparsa dei sintomi.

Fonte: huffingtonpost.it

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Impiantata prima retina artificiale in Italia

I medici dell’ospedale San Raffaele di Milano hanno, per la prima volta in Italia, impiantato una retina artificiale su un paziente non vedente. L’intervento è durato ben 11 ore ed è stato condotto da una equipe di specialisti in chirurgia oftalmologica. La paziente sta bene, ma l’esito dell’intervento è ancora sconosciuto.

La protesi sottoretinica contiene un microchip di circa 3 millimetri, contenente 1600 sensori. I medici hanno inserito questo microchip in corrispondenza della macula, da dove dovrebbe stimolare i nervi che collegano occhio e cervello. In questo modo dovrebbe sostituire le cellule ormai incapaci di fare questo lavoro a causa di malattie come la retinite pigmentosa. Insieme al microchip, i medici hanno impiantato anche un circuito di collegamento dietro l’orecchio.

La paziente è affetta di retinite pigmentosa fin da giovane e nel corso degli anni ha perso progressivamente la vista. Se tutto andrà bene, all’accensione del microchip sarà di nuovo in grado di percepire luci e sagome. Pur non ripristinando la vista in modo completo, il meccanismo dovrebbe comunque migliorare in modo significativo la qualità della vita della donna. Sarà inoltre un processo graduale.

La retina artificiale è una novità assoluta in Italia. I casi sono però pochissimi anche in Europa: solo due centri europei hanno fino ad oggi effettuato questo intervento.

Fonte: corriere.it

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Nuovo criterio per analizzare il rischio di cancro alla prostata

Gli autori di uno studio internazionale hanno elaborato un nuovo criterio per misurare il rischio di cancro alla prostata. Il punteggio serve ad analizzare i fattori genetici che potrebbero portare a una forma aggressiva del tumore. In questo modo sarebbe possibile ottimizzare i trattamenti e agire subito in maniera aggressiva, se necessario.

Il cancro alla prostata è il tipo di tumore maschile più diagnosticato nei paesi sviluppati. Si calcola che provochi ogni anno oltre 300.000 morti nel mondo. I nuovi casi sono circa 1 milione ogni anno. Una vera e propria emergenza, da affrontare di conseguenza anche con test genetici specifici.

Gli screening per calcolare l’antigene prostatico specifico (PSA) facilitano la diagnosi precoce. È però frequente che uomini del tutto sani presentino comunque livelli alti di PSA. Inoltre, c’è sempre il pericolo di trattamenti troppo aggressivi su persone affette da una forma blanda del tumore. La cosa migliore sarebbe quindi individuare in anticipo chi rischia di sviluppare una forma grave di tumore alla prostata.

Il consorzio PRACTICAL ha sviluppato un test genetico specifico per il cancro alla prostata. I ricercatori hanno sviluppato anche uno strumento per misurare il rischio di sviluppare la forma aggressiva del tumore. In questo modo sarebbe più facile fornire a ciascun paziente il trattamento giusto per la sua condizione.

I ricercatori hanno analizzato oltre 200.000 varianti genetiche provenienti da 31.747 uomini europei. Hanno identificato 54 variazioni collegate a un maggior rischio di tumore. Le hanno quindi incorporate in un’analisi dell’età dei soggetti e del loro stile di vita. Hanno così ottenuto un nuovo criterio per l’analisi dei dati, applicato a 6.411 uomini.

Secondo il test effettuato, il test genetico e l’analisi darebbero risultati molto affidabili. Se la cosa fosse confermata, si avrebbe uno strumento prezioso per elaborare trattamenti più efficaci e specifici.

Fonte: medicalxpress.com

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Individuata l’alterazione genetica causa del glioblastoma

Un team della Columbia University ha individuato un’anomalia genetica causa di alcuni tumori, tra cui il glioblastoma. Alla base della malattia c’è la fusione dei geni FGFR3 e TACC3. Il fenomeno porta all’aumento dei mitocondri, che provoca la moltiplicazione incontrollata delle cellule tumorali. Secondo gli studiosi, interferendo con l’attività anomala dei mitocondri si potrebbe bloccare l’avanzata dei tumori.

La scoperta si basa su uno studio pubblicato sulla rivista Science nel 2012. Lo stesso team aveva evidenziato come il 3% dei pazienti affetti da glioblastoma mostrasse la fusione di FGFR3-TACC3. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno mostrato l’effetto benefico dei farmaci che bloccano la produzione di energia da parte dei mitocondri. Le ripercussioni della scoperta vanno però oltre il trattamento del glioblastoma.

La stessa fusione genetica è presente con percentuali simili anche nei soggetti affetti da cancro ai pomoni, all’esofago, al seno e molti altri. È probabile che la mutazione genetica di FGFR3-TACC3 sia la più diffusa nel cancro tra quelle individuate ad oggi. Ciò significa che la scoperta potrebbe aiutare a combattere non solo il glioblastoma, ma anche altri tumori. Nei modelli animali con la fusione dei geni FGFR3-TACC3, l’inibizione del metabolismo mitocondriale ha fermato la crescita del tumore. Le cavie trattate con farmaci per inibire i mitocondri e per inibire FGFR3-TACC3 hanno mostrato livelli maggiori di sopravvivenza al glioblastoma.

Secondo diversi studi, bloccare l’attività enzimatica della fusione genica già basta a bloccare il tumore. Con il tempo, però, il tumore diventa resistente ai farmaci e tende a tornare. Aggiungere farmaci che inibiscono il metabolismo mitocondriale potrebbe aiutare a risolvere il problema.

Fonte: lastampa.it

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